Per Mario Pavesi plasmare una figura, qualsiasi essa sia, equivale a intrecciare un dialogo con se stesso, perché ogni sua opera nasce da un’emozione provata davanti alla realtà, oppure da un’associazione d’idee da essa suscitata e, per tale ragione, non è mai disgiunta da una breve notazione scritta, che indirizza alla sua interpretazione.
Obbedisce a questa consuetudine anche “Anelito”, il grande cavallo di bronzo, modellato nel 2004 e poi ingigantito, per poterlo collocare davanti al nuovo padiglione del CORE nell’Ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia. Il lemma “anelito”, infatti, indica l’aspirazione fortissima a raggiungere una meta. Nel caso presente allude a un doppio traguardo: la guarigione della malattia e la ricerca di un sistema terapeutico ancor più efficace contro di essa.
Pavesi è perfettamente sintonizzato sul suo tempo e ha fatta propria la lezione delle Avanguardie storiche del Novecento, determinate a creare un linguaggio artistico nuovo, liberato dal compito dell’imitazione della realtà assegnato all’arte dalla tradizione rinascimentale e ormai trasferito alla fotografia.
Come artista, opera sia nel campo pittorico sia nella scultura e, fra le varie vie imboccate dall’arte contemporanea, ha scelto di esprimersi con l’astrazione informale in pittura, dove la velocità di stesura consente la libera manifestazione degli impulsi inconsci. Nell’attività plastica, invece, non si distacca mai del tutto dalla forma naturalistica per due ragioni fra loro concatenate. La scultura richiede tempi lenti di lavorazione, che lasciano spazio alla riflessione e si rivela perfettamente funzionale all’intento, sopra ricordato, di utilizzare l’immagine quale veicolo d’idee. I concetti, tuttavia, possono essere trasmessi soltanto mediante segni decifrabili.
La scelta di comunicare il suo messaggio attraverso la metafora del cavallo corrisponde a questo aspetto del suo linguaggio artistico, fondato su un’approfondita conoscenza della storia artistica e sulla consapevolezza che essa costituisce il sostrato culturale dell’arte contemporanea.
Il cavallo per millenni è vissuto in simbiosi con l’uomo, cui forniva un mezzo di trasporto, uno strumento guerresco e una forza motrice mobile. Tali peculiarità sono valse a rivestirlo d’innumerevoli significati simbolici e a farne, pertanto, l’animale più rappresentato nell’arte. Non c’era dunque che l’imbarazzo della scelta e Pavesi ha adottato il tipo raffigurato nel gruppo dei Dioscuri, oggi nella piazza romana del Quirinale, ma anche nei disegni di Leonardo per il monumento a Francesco Sforza; un animale, cioè, non del tutto domo e impennato verso l’alto. Quanto alla forma, invece, ha preferito allontanarsi dal naturalismo dell’arte greca e rinascimentale, per una libertà espressiva in cui si coniugano la riconoscibilità dell’oggetto e la sua metamorfosi in simbolo.
Diviene in tal modo comprensibile la ragione delle trasformazioni formali apportate al suo cavallo, raccolto sulle zampe posteriori, il corpo avvitato nello sforzo di caricarsi di energia per il balzo verso la meta agognata, indicata dal collo smisuratamente lungo e dal muso proteso come una punta di freccia.
Guardandolo, viene immediato anche il ricordo del cavallo dipinto da Picasso in Guernica, anch’esso deformato nelle fattezze per simboleggiare l’insensatezza della guerra, che colpisce senza alcuna distinzione i civili e i militari, ma il confronto rende immediatamente evidente, che Pavesi ha rovesciato il messaggio e del suo animale ha fatto l’eroe vincente nella lotta della scienza contro la malattia.

Massimo Mussini

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