Anelito”: si chiama così il cavallo impennato di Mario Pavesi.
Un nome che sa di fatica e grandezza; e di remote memorie.
Fatica e grandezza, del resto, segnano le forme possenti di questa creatura di bronzo, monumento antichissimo e nuovo che ha la sua origine prima nel grembo solenne del mito, e che rinnova i sensi di una classicità mai tramontata.
“Anelito”: nome che attinge alle radici dell’Essere, simbolo di una volontà mai sopita di testimoniare sia la necessità della vita, sia del suo esatto contrario, la morte.
“Anelito”, infatti, è termine che significa soffio vitale, ma pure affanno; che significa aspirazione e desiderio, ma vuol dire anche l’ultimo respiro di chi muore.
C’è, infatti, una duplice, quanto drammatica chiave di lettura in questo grande cavallo che s’impenna e noi non sapremo mai se in un gesto di sfida o di implorazione, se per un’ ansia estrema d’ amore o di dolore, di resurrezione o di ultima, definitiva caduta.
Tutte queste cose insieme, io penso. Coincidentia oppositorum, appunto, come direbbe la filosofia, ovvero la conciliazione dei contrari, l’unione degli opposti come direbbero anche Jung e gli alchimisti.
E alchimista lo è per davvero Mario Pavesi, che ha quotidiana familiarità con il fuoco e i metalli, che manipola e fonde e trasmuta la materia -la creta, la cera e il bronzo- servendosi con laboriosa sapienza di quella tecnica antica di cui gli artefici greci furono insuperati maestri: la fusione a cera persa.
Ed eccolo qui, dunque, l’esito di questo trepidante Opus Alchemico: una figura di vasti volumi che si inverano in scabre superfici a tratti spigolose e frante, scosse –violate quasi- da forti tensioni ove le memorie antiche si fondono in echi e rimandi del miglior Novecento.
Dunque, ancora una volta, un’altra coincidentia oppositorum. Ma sembra qui inutile affaticarsi in riferimenti formali per rintracciare eventuali filiazioni che magari chiamano in causa alcuni grandi maestri della scultura del secolo scorso; chè il linguaggio di Mario Pavesi, in cui l’anatomia dei corpi viene tradotta in volumi essenziali e concisi, nasce da questa sua dichiarata volontà di coltivare –come egli sostiene- “un’Idea antica e moderna della scultura”.
In ogni caso, se mai, viene in mente a chi scrive l’immagine di un altro grande cavallo, opera questa volta di un maestro della pittura; ed è un confronto, questo, che avviene non già per analogie formali, quanto, piuttosto, per prossimità di suggestioni simboliche. Ebbene in quel moderno Trionfo della Morte che è “Guernica” di Picasso spicca al centro della composizione il corpo stravolto di un cavallo il cui straziato nitrito, come ebbe ad affermare lo stesso artista, assurge a simbolo di quel dolore universale che tutti lega (uomini e animali) ad un unico destino; ma è anche, nello stesso tempo, commossa, tenace testimonianza di resistenza al male.
Ora anche l’ opera di Pavesi a me sembra vicina a quei sentimenti. Questo suo cavallo che si impenna, questo monumento\non monumento refrattario ad ogni aulica idealizzazione e ad ogni retorica; questo cavallo fuori misura che prolunga e assottiglia il proprio corpo nel palpito dilatato del collo -quasi a cercare un altro spazio, un altro e più elevato orizzonte, o un ultimo soffio d’aria oppure, al contrario, un primigenio anelito di vita- trascende la propria natura per diventare simbolo di tutti gli Opposti di cui un’esistenza è intessuta: l’Amore e il Dolore, la Vita e la Morte, la Lotta e la Resa, Il Bene ed il Male.
Un Cavallo, un’ Opera, un “Monumento”, dunque, sottratto ad ogni contingenza di cronaca, simbolo atemporale, invece, della Storia, quella dell’arte e degli uomini, e della loro coscienza dove Etica ed Estetica finalmente coincidono in un unico destino: perché questo dovrebbe essere il fine ultimo di ciascuno di noi.

Giuseppe Berti

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