Anelito è il titolo dell’opera. Dalla letteratura si evince che
si “anela” ad un traguardo con tutte le proprie forze, metali e fisiche, fino al limite del dolore. A questo fine, Pavesi ha pensato di umanizzare il cavallo, per poter utilizzare una maggior libertà di espressione, traslando i significati palesi e reconditi dal mondo degli uomini a quello del nobile animale, da sempre accreditato dalla simbologia psicologica, anche dell’intelligenza e della sensibilità, paragonabili a quelle dell’uomo.
Tenendo conto che la destinazione, pensata fin dall’inizio di questo progetto, è l’area circostante l’ospedale S. Maria Nuova, e precisamente il CORE, il nuovo Centro Oncoematologico, viene immediato dedurre che ‘anelito, cui si riferisce il titolo dell’opera, è quello che tende alla “liberazione dalla sofferenza”. Una lettura più diretta e spontanea è quella che “dovrebbe essere possibile superare la debolezza del corpo, provocata dalla malattia, con la grande forza dello spirito e del pensiero”.
In Scultura, la ricerca dell’espressione inizia nel V secolo A.C. con Mirone e Policleto che, nella figura umana, dilatano il gesto atletico oltre i limiti del “canone” da loro stessi imposto, fino ad arrivare, dopo oltre due millenni, alla furia quasi selvaggia del Balzac di Rodin, dell’ultima decade del XIX secolo. Senza dimenticare che il percorso si è svolto anche attraverso i Crocifissi del gotico-bizantino e le grandi opere del Rinascimento, una per tutte la michelangiolesca, discussa e inquietante Pietà Rondanini. Nel XX secolo poi, dopo le due guerre mondiali, col loro carico di disperazione, di orrore, e
di morte, ‘espressione’ per l’artista è diventata una cosa in cui calarsi, e vivere dall’interno dell’opera stessa.
Ma per spiegare più facilmente questa affermazione, dobbiamo scomodare il concetto kantiano di “Sublime”, ovvero quel sentimento che riesce a far coesistere nella stessa opera lo sgomento e la bellezza. Tra le fonti del “Sublime” annoveriamo la vastità e la magnificenza, la luce e l’oscurità, la positività e la negatività, mentre l’effetto primario è soprattutto lo stupore. Mario Pavesi, con questa opera gigantesca, alta sei metri e pesante alcune tonnellate di bronzo, ha voluto e saputo andare oltre il suo stile sobrio e convincente, ottenendo una figura di intensa interiorità, sottolineata, oltre che dai volumi, anche da un’accuratissima resa delle superfici.
Anelito, in questo caso, non è un semplice stato d’animo, ma una forte reazione alla ineluttabilità del destino, non un imbelle e rassegnato fatalismo, ma la spinta e l’impegno a non accettare gli insulti di una fortuna avversa.

Emanuele Filini

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